La verità è che non gli piaci abbastanza
Ora basta parlare di me, parliamo di voi. Cosa ne pensate di me? - Bette Midler
Ciao! Questa è la newsletter de I MILLE. Si chiama Forward perché da qui guardiamo in avanti, cercando di interpretare i cambiamenti del mondo. E perché da qui inoltriamo al mondo i nostri pensieri, le nostre storie ed esperienze.
Verremo a bussarti più o meno una volta al mese. E lo faremo raccontando storie di comunicazione, design, tecnologia e business. Analizzando i trend e i fenomeni emergenti più rilevanti. Confrontandoci con quello che c’è di più interessante là fuori.
La strana coppia
Ogni volta che mi siedo alla scrivania per affrontare un nuovo progetto mi trovo davanti loro due, la strana coppia: il brand e il target.
Il primo a presentarsi è sempre il brand. Nella vita, è uno che non ne ha mai sbagliata una.
È un tipo di successo: attraente, simpatico, moderno senza dimenticare la tradizione, passionale, pieno di valori, professionale, autentico. Con tutta questa eccellenza nel dna, non poteva che diventare leader di mercato.
Ci manda un brief perché vuole conquistare la sua metà, il target.
I brief si soffermano di volta in volta sui diversi assi nella manica del brand. Ci presenta i suoi prodotti, e che prodotti! Descrive nel dettaglio le loro features, le USP, le novità della gamma, la filosofia che ci sta dietro. Ci parla del suo heritage. Della sua vision e della sua mission. Qualcuno si espone a tal punto che così, al primo appuntamento, ci racconta il suo purpose.
Rivali in amore
A volte il brief finisce qui. Del resto, le informazioni fondamentali ci sono tutte, giusto?
Qualcuno però si spinge più in là, ci dice che qualcosa lo preoccupa. Il cuore del target potrebbe essere rapito da altri corteggiatori, i competitor. Li descrive come descrive se stesso, ci racconta le loro narrazioni, i loro posizionamenti, i loro communication angles. Ci chiede spesso di aggiungere il nostro punto di vista, di spiarli e riferire le informazioni che otteniamo, di inserirli in un benchmark.
Ideale, perfetto, sfuggente
Poi ci sono i brief più ricchi di dettagli, ed ecco che comincia a prendere forma l’oscuro oggetto del desiderio di ogni brand. E cominciano ad apparire una serie di formule per descriverlo. Gli italiani. Gli sportivi. Le donne under 50. I residenti al centro-sud, isole comprese. I professionisti altospendenti, i Millenial, gli Zoomer.
Alcuni brand si spingono oltre e vanno più nel dettaglio dei profili che cercano. Dichiarano di voler conquistare gli innovatori intraprendenti, le mamme attente al benessere, i pescetariani impegnati, i programmatori socievoli.
Ne descrivono trigger e pain points, accompagnati da brevi biografie che ruotano attorno ai prodotti che consumano. Soffermandoci su questi profili, emerge spesso un pattern chiaro. Ci raccontano proiezioni di se stessi, idealizzazioni, partner perfetti che non vedono l’ora di accoglierli come abilitatori nelle loro vite.
Per questo, il lavoro di ricerca più difficile di ogni progetto è sempre tentare di dare forma e personalità a questo target sfuggevole. Per prima cosa, togliendogli quel mirino dalla fronte, quel target, spogliandolo della parola con cui lo identifica il brand, mutuata da un gergo belligerante fuori dal tempo.
La miccia del feeling
Per ogni progetto importante dedichiamo una fetta consistente della nostra analisi strategica a osservare e a parlare con le persone. E ogni volta che lo facciamo, improvvisamente il mondo nel quale siamo costantemente immersi, fatto di brand lover, di ambassador ed evangelist, di persone che si lasciano sedurre da un claim ben congegnato o da una line incisiva, scompare, lasciando spazio a persone che vivono le loro vite facendo una cosa inusitata per chi vive nel nostro mondo: non pensano alla pubblicità.
Quando il brand con i suoi prodotti entra nelle loro vite, non pensano alla promessa di marca o alla brand essence ma a quello che rappresenta per loro. Le informazioni più interessanti non sono esplicite, vanno estratte con spirito critico frugando tra le righe.
Lo vediamo leggendo le conversazioni in cui vengono citati i brand - quelle autentiche ovviamente, che sono una piccola fetta di quelle fotografate dai nostri tool di conversation analysis costretti a districarsi tra branded content, guerrilla marketing e spambot. Lo notiamo dai contenuti che producono con i prodotti del brand. Dalle situazioni che catturano, dai momenti che decidono di condividere, dal contesto che lasciano trasparire.
Conversazioni che sono tanto più interessanti quanto meno contengono opinioni dirette, pareri, sentiment che va a riempire caselle verdi (positivo), grigie (neutrale) o rosse (negativo). Conversazioni in cui la miccia del feeling si accende proprio quando ci allontaniamo dal perimetro del brand ed entriamo negli ecosistemi personali e sociali, dove i brand diventano solo uno dei tanti attori ai quali prestare attenzione.
Se intervistiamo dieci persone, scopriamo dieci storie diverse per ciascun brand.
Il tuo brand non è quello che dici tu, ma quello che dicono gli altri.
Marty Neumeier
Riempire gli spazi
La strategia del brand, come le strategie amorose, deve partire dal presupposto che per conquistare il cuore delle persone non è necessario piazzarci un riflettore sopra la testa e avviare un soliloquio, concentrandoci sul nostro punto di vista e sulla nostra visione del mondo.
Ma guardare di fronte, mettersi nei panni dell’altro da noi, per intuire di cosa abbia davvero bisogno, e cosa siamo in grado di offrirgli. Questo cambio di prospettiva, come per magia, ci fa capire cose di noi che non conoscevamo.
Dal tentativo di comprendere il punto di vista delle persone gettiamo luce su aspetti del brand di cui non eravamo consapevoli. Sappiamo come raccontare la sua promessa, le features, sappiamo cosa significa davvero il suo purpose, come rimodulare il messaggio.
Allontanandoci per un attimo dal mondo astratto e confortevole fatto di framework e di funnel, di caselle da riempire per fasi di awareness, consideration e conversion, siamo capaci di trovare soluzioni più lucide, coerenti, rilevanti.
Dopo aver ascoltato le persone siamo capaci di riempire gli spazi vuoti del brief, mettendo in pratica la nostra mission di consultancy creativa. E allora torniamo sul brief e lo rivediamo, lo integriamo, ci mettiamo in discussione proponendo qualcosa di diverso, ci incamminiamo verso nuove aree sulle quali intervenire.
Dopo aver parlato con il target, sappiamo dove deve andare il brand.
Post scriptum
Nella mia più che trentennale esperienza di gamer, ricordo bene gli anni d’oro delle console wars, combattuta a colpi di aggiornamenti di schede grafiche e di meraviglie poligonali ospitate su cartucce e compact disc, strillate negli annunci in TV e sulle riviste specializzate.
Nessuna di queste feature rimaneva centrale nella vita di un videogiocatore dopo aver schiacciato il tasto play. Le console, accendendosi, scomparivano.
Il campo di battaglia sulla quale veniva giocata la console war era su un piano profondamente lontano dalla mia esperienza di videogiocatore. E così non ricordo chi ha prodotto la prima console portatile a 8bit, le cartucce intercambiabili o il 3D.
Ricordo solo le sensazioni dei mondi alternativi che hanno accompagnato le lunghe estati dell’infanzia, vissute tra i fichi d’india nel Cilento degli anni Novanta. Le estati spensierate che ricerco ogni volta che, nella mia vita di adulto, sento il bisogno di giocare.
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