Questa newsletter toglie l’alitosi
O forse è solo una scusa per iniziare a parlare di Unique Content Proposition.
Ciao! Questa è la newsletter de I MILLE. Si chiama Forward perché da qui proviamo a guardare in avanti (e anche perché se poi le cose che scriviamo ti piacciono le puoi inoltrare a qualcuno che ti piace). Come te, altre +1700 persone che lavorano nel mondo della comunicazione, del marketing e del digitale leggono I MILLE Forward, e in più di 26.000 seguono quello che abbiamo da dire su LinkedIn e Instagram.
Io sono Andrea Migliorini, Content Lead de I MILLE, e ogni giorno me ne devo inventare una per parlare di brand, strategia e contenuti digitali. Quindi ho deciso di parlare di content e alitosi. E se hai aperto questa newsletter forse un po’ ha funzionato.
Ma, come avrai intuito, oggi non parliamo di collutori e igiene dentale (o almeno, non solo).
Quando ho saputo di dover scrivere questo pezzo e di dover parlare di content mi è tornata in mente la stessa domanda che mi pongo ogni giorno quando partecipo a brainstorming creativi, apro un nuovo doc, o devo trovare le parole per raccontare un’idea in una presentazione: che cosa spinge le persone nel 2024 (ormai, quasi, 2025) a dedicare la propria attenzione a un contenuto?
Cosa posso fare per rendere un post interessante e non sempre-la-solita-roba? Perché tu, che leggi questa newsletter, dovresti leggere proprio questa newsletter e non uno qualsiasi degli altri sei milioni di contenuti pubblicati ogni giorno?
Spoiler: alla fine l’alitosi c’entra davvero.
La chiamavano information overload
Dicono che partire da una storia funzioni quindi partiamo da qui: il 12 novembre io e le altre figure di Content Lead e Director de I MILLE abbiamo partecipato al Brand Journalism Festival 2024 a Roma, un evento annuale che invita esperte ed esperti di branded content, giornalismo e comunicazione a tracciare bilanci e traiettorie sul nostro lavoro quotidiano, con un’attenzione particolare ai rapporti gravitazionali tra i pianeti dell’editoria e quelli delle organizzazioni.
Durante uno dei primi panel, dedicato alle modalità di consumo dell’informazione da parte della Generazione Z, Bianca Arrighini, co-founder e CEO di Factanza, ha affrontato il tema dell’information overload: ogni giorno, ci ha ricordato, vengono pubblicati su tutte le piattaforme digitali 96 milioni di contenuti - quindi 66.000 contenuti al minuto.
È un insight di cui siamo, chi più chi meno, a conoscenza, ma che acquisisce sempre nuovi pesi e misure se si comprende veramente la mole che comporta.
Ora, proviamo a restringere il campo al mondo dei blog e delle pubblicazioni editoriali online. Quanti articoli verranno pubblicati in un giorno sui blog delle aziende e dei giornali di tutto il mondo? 500.000?
1 milione e qualcosa?
2 milioni? Eddai.
6.000.000.
Al giorno.
Già un anno fa, fra le varie voci che ne hanno discusso, Valerio Bassan, autore di Ellissi, ci metteva in guardia dai pericoli del sovraffollamento dei contenuti, del generale disamore verso le piattaforme digitali, e di quella che definiva come banner blindness, spostando il tema (anche) dalla quantità del content alla qualità - uso qui questa parola e cercherò di non farlo più, non fosse che per la mia fede in René Ferretti.
Se consideriamo il content (leggi: tutto ciò che produciamo sulle piattaforme digitali, da TikTok al mio blog su Wordpress di quando avevo 15 anni) come parte della produzione culturale contemporanea, arriviamo per forza a chiederci se non ci sia veramente troppa cultura in giro. Però. Però. Però: perché proprio noi, noi che facciamo content oggi, dobbiamo sentire questo peso ed essere quelli che non si meritano la chance di contribuire con il nostro verso?
È una domanda (o forse due, tre, ventisei domande) che ne genera un’altra: quale ruolo ha avuto, sta avendo e avrà l’adozione massiva degli strumenti di content creation AI-based su questi numeri?
AI non vuol dire “più content”
Possibile che in un pezzo sui contenuti nel 2024 non avessimo ancora parlato di AI? Ecco, ci siamo.
Partiamo da una promessa. O meglio, partiamo dalla promessa con cui l’AI (attraverso player di settore come Copy.ai, Synthesia, Jasper, Rytr e altri) è entrata nel mondo della produzione di contenuti. Una promessa che è abbastanza semplice e fa più o meno così: da oggi puoi creare più contenuti, in meno tempo.
Ora, non voglio fare qui un’analisi delle posizioni politiche di AI-enthusiast e negazionisti della tecnologia, da quelli che con l’AI ci bollirebbero pure le uova a quelli che “no, noi siamo umanisti” - e penso che non abbiamo bisogno di un altro articolo che parla della “necessità di integrare intelligenza umana e artificiale”. Oggi vorrei provare a spostare il discorso su altre direzioni: perché, anche se sembra banale dirlo, la possibilità di creare più contenuti non va di pari passo con la necessità di doverne creare di più.
Già nel mondo dei social media stiamo assistendo a un cambio di paradigma: dalla quantità (più pubblichi, più andrà bene) alla cura (più attenzione e ricerca c’è nei contenuti che pubblichi, più interazioni avrai). Nel campo editoriale, anche gli ultimi aggiornamenti (Marzo 2024) all’algoritmo Core Update di Google vanno in questa direzione. Un esempio? Verranno svantaggiati i contenuti di bassa qualità e quelli che utilizzano pratiche di manipolazione (come l'uso di domini scaduti per ospitare contenuti spam). Insomma, anche l’attività SEO, e ce lo ripetiamo spesso, sarà concentrata soprattutto sul produrre contenuti di qualità - abbiate pietà, fra poco la smetto.
Visto che non posso terminare ogni paragrafo con una domanda, questa la butto lì come farebbe un guru di LinkedIn: basta parlare di qualità. Parliamo di cura, di senso. Di unicità.
Quindi: che fine ha fatto l’alitosi.
E ora sì che torniamo all’alitosi
Eh già, alla fine torniamo all’alitosi. Ma perché? Sarà una supercazzola? Beh, questo me lo direte voi. Intanto ecco un’altra storia.
È il 1934 e un aspirante avvocato della Virginia è costretto ad abbandonare gli studi e trasferirsi a New York per cercare un lavoro. Le strade della vita lo portano prima nelle fatiche del giornalismo e poi nello scintillio dell’industria dell’advertising. Così, un giorno, forse mentre aspettava il suo long island in un bar di Madison Avenue, questo ormai ex reporter con il sogno di diventare avvocato conosce Ted Bates: nasce la Ted Bates & Co, una delle più grandi compagnie pubblicitarie di quegli anni.
Quel giovane reporter, che si chiamava Rosser Reeves, dopo anni di lavoro sul campo, nel 1961 pubblica un libro (Reality in Advertising) che sintetizza in poche pagine un concetto capace di cambiare per sempre il mondo del marketing:
Each advertisement must make a proposition to the consumer… It must say to each reader: ‘Buy this product, and you will get this specific benefit.’ … The proposition must be one that the competition either cannot, or does not, offer.
Stiamo parlando della USP: la Unique Selling Proposition. Quella promessa che sta alla base delle campagne di comunicazione dei prodotti, quell’elemento che non può mancare in una strategia di marketing, nei pensieri dei team di prodotto, nella cultura stessa di un’azienda. Per raccontare cosa intende con questo concetto, Reeves analizza le campagne e la comunicazione di varie organizzazioni, per concentrarsi poi su quella di un’azienda in particolare: Listerine.
Perché il loro messaggio funziona e quello dei competitor no? Perché le campagne pubblicitarie di Listerine si basano sul concetto di Unique Selling Proposition. Listerine utilizza, infatti, un claim semplice che evidenzia però una promessa chiara e distintiva: “Stops Halitosis”. Hai presente quella sensazione che ogni tanto ti rimane in fondo al palato anche dopo che ti lavi i denti? Ecco, Listerine te la toglie.
Anche se altri prodotti offrivano soluzioni simili, Listerine fu il primo brand a reclamare questa caratteristica in modo diretto e memorabile, creando così un'associazione indelebile con la soluzione al problema che si proponeva di risolvere. In fondo, la USP è una promessa, la base del patto tra un’organizzazione e i suoi consumatori: fidati di noi, che sappiamo risolvere questo specifico problema in questo specifico modo. In questo modo unico.
Ora, lasciamo un attimo da parte l’AI, l’alitosi, la SEO e tutto il resto e riproviamo con una domanda: cosa succederebbe se prendessimo la S di selling in USP e la sostituissimo con la C di content?
Da USP a UCP: ready for spiegone?
Come sempre, più entusiasmo hai per un’idea, più è sicuro che qualcuno ci abbia già pensato prima di te.
In questo caso, qualcuno ci ha già provato a cambiare quella lettera. Nel mondo agenzie, Kemmler Kemmler ha provato a legare la C di UCP al concetto di cultura:
The UCP shifts focus from what the product is to what the brand stands for culturally.
Per quanto sia una prospettiva interessante, non è questo il punto della nostra C - fiuuuuuuuuuuuu.
Per me questo concetto è nato mentre lavoravo in un team di content marketing formato prevalentemente da figure junior e dovevo trovare un modo per aiutare le persone a scrivere contenuti rilevanti - e dovevo farlo in fretta. Si trattava di persone con un background nel marketing più che nel content, quindi avevo provato a portare il concetto di USP nel reame del content, e così era nata l’idea della Unique Content Proposition - che sembra la sigla di una generica università della California, ma in realtà ha più o meno questo significato qui.
Unique: Potremmo perdere giorni a discutere del tema dell’originalità. Ma muoversi dal terreno dell’originalità a quello dell’unicità rende forse il lavoro un po’ meno complicato. L’unicità non sarà mai, oggi, nel tema che trattiamo attraverso i nostri contenuti: a quel punto diventerebbe soltanto una questione di velocità, con tutti i rischi che comporta. L’unicità è nel taglio che diamo alle cose di cui parliamo. Nel nostro sguardo: inteso come la nostra identità, l’identità che si esprime nel modo di guardare al mondo.
Content: Questo concetto è nato nell’ambito della produzione di contenuti editoriali, ma può essere esportato su contenuti social, digital, e, perché no, anche stampa. In un mondo in cui i contenuti sono fruiti sempre di più per uno specifico job to be done, il punto è ragionare sul contenuto come se fosse un prodotto, come qualcosa che si usa.
Proposition: Nel primo paragrafo (o, in generale, nei primi secondi di esposizione) dobbiamo lanciare una promessa al lettore, una promessa più forte dell’inerzia dei nostri pollici. Se leggi (o ascolti) fino in fondo, che cosa imparerai di nuovo? O meglio: che nuovo sguardo avrai su quel tema, quella curata nicchia di mondo?
La vuoi una mentina?
Finito lo spiegone, passiamo al riassuntone. È il momento in cui si tirano le fila e quindi ho provato a mettere tutte le parole che avete letto fin qui in 4 punti e pochi caratteri.
Siamo in information overload. Ok, l’acqua calda. Ma ripetere le cose che già sappiamo e inserirle in un contesto nuovo a volte aiuta. Soprattutto se leghiamo questo contesto alla produzione di contenuti AI-based.
Poter creare più contenuti (grazie all’AI) non significa doverlo fare: l’industria del content sta assistendo a un cambio di paradigma. Dal numero di contenuti si passa alla cura dei contenuti.
Ha senso parlare di Unique Content Proposition? Spostiamo la partita dall’originalità (e novità) all’unicità. Forse c’è un modo per contribuire alla cultura (in senso ampio) del nostro tempo: creare contenuti che abbiano una promessa di identità.
Cercate persone che abbiano uno sguardo. È forse l’unica cosa che conta: la capacità di mettere la propria identità nel modo in cui guardiamo e raccontiamo i servizi, i prodotti, le notizie.
Quindi, per concludere rimanendo coerente alla promessa di questa newsletter, ecco una scatola di mentine che vi aiuterà a togliere l’alitosi al vostro content: